
Accettiamo che siamo precari: ce lo siamo dimenticati? Rendiamoci conto che non abbiamo più le parole per nominare la morte perché l’abbiamo dimenticata. Ammettiamo che quando un nostro caro sta male lo affidiamo all’esterno, a una struttura tecnica che si chiama ospedale, e da lì non abbiamo più alcun contatto. Una volta i padri vedevano morire i figli quanto i figli vedevano morire i padri. C’erano le guerre, le carestie, le pestilenze. Esisteva, concreta, una relazione con la fine. Oggi l’abbiamo persa. Quando qualcuno sta male, mancano le parole per confortarlo. Diciamo: vedrai che ce la farai. Che sciocchezza. Che bugia. Perché abbiamo perso il contatto con il dolore, con il negativo della vita. E quindi come facciamo ad avere delle strategie quando il negativo diventa esplosivo?
Io penso che la sospensione ci trovi soprattutto impreparati: ci lamentiamo tutti i giorni di dover uscire per andare a lavorare, ma se dobbiamo fermarci non sappiamo più cosa fare. Non sappiamo più chi siamo. Avevamo affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. La sospensione dalla funzionalità ci costringe con noi stessi: degli sconosciuti, se non abbiamo mai fatto una riflessione sulla vita, sul senso di cosa andiamo cercando.
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