L’uomo come fine _ Alberto Moravia

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“… ciò che impedisce e impedirà il trionfo dell’automatismo e dell’assurdità è che l’impiego dell’uomo come mezzo, al contrario di quanto avviene con tutti gli altri mezzi, dalla pietra all’animale, lascia sempre un residuo, e che questo residuo non pare potere essere utilizzato a sua volta come mezzo”.
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(Alberto Moravia, L’uomo come fine, 1954
Lo scritto, cadenzato in diciotto serrati capitoli, analizza le sfere dell’esistenza all’interno delle quali uno sviluppo perverso della modernità – il testo può infatti essere letto come una critica alla modernità mossa dal suo interno – ha ridotto l’uomo a mezzo di un agire che è fine a se stesso: “in amore l’azione fine a se stessa porta al vizio, nel lavoro alla tecnica, nella politica al machiavellismo, nella morale alla precettistica, nella letteratura alla propaganda, nell’arte alla decorazione […]. L’azione per l’azione è il trionfo […] dell’uomo-mezzo”. La resistenza a tale processo, che ha visto nella deportazione nazi-fascista la sua più tragica manifestazione, va trovata, continua Moravia, nel recupero di una misura dell’umano – “che è l’universale e il particolare, non il gigantesco e il minimo” – all’interno della quale l’uomo possa riscoprirsi come fine degno di se stesso. A partire dal riconoscimento della sua natura residuale.
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