L’infanzia e i primi insegnamenti dagli animali Valerie Jane Morris-Goodall nacque a Londra il 3 aprile 1934. Fin da bambina mostrò un’osservazione instancabile del mondo naturale. Raccontava spesso l’episodio in cui, a cinque anni, rimase per ore in silenzio nell’aia di una fattoria per capire come una gallina deponeva le uova. Da quel giorno sua madre comprese che quella curiosità avrebbe segnato il destino della figlia.
La giovane Jane non fu però affascinata subito dagli scimpanzé, bensì dai cani di famiglia, ai quali attribuiva una personalità distinta e capacità emotive complesse. “Sono stati i miei primi maestri” ripeteva, spiegando che da loro imparò il valore del legame di fiducia e l’importanza di considerare gli animali come individui.
Cresciuta leggendo Tarzan e Dr. Dolittle, coltivò il sogno di vivere in Africa per studiare gli animali nel loro ambiente naturale. Un desiderio allora fuori portata, specie per una donna priva di formazione universitaria scientifica.
L’incontro decisivo con Louis Leakey La svolta arrivò a 23 anni, quando si recò in Kenya per visitare un’amica. Qui conobbe il paleoantropologo Louis Leakey, che cercava un osservatore capace di studiare gli scimpanzé nel loro habitat per raccogliere indizi sull’evoluzione umana. Leakey scelse Jane proprio per la sua tenacia e il suo sguardo non condizionato dall’accademia.
Nel luglio 1960 Goodall arrivò, accompagnata dalla madre, nel Gombe Stream Reserve, sulle rive del lago Tanganica in Tanzania. Iniziò così un lavoro che avrebbe cambiato per sempre la primatologia.
Le scoperte rivoluzionarie a Gombe Nel settembre 1960 osservò per la prima volta David Greybeard, uno scimpanzé maschio adulto, usare un ramoscello per estrarre termiti da un nido. L’uso di strumenti era considerato una capacità esclusivamente umana. Leakey, informato della scoperta, commentò: “Dobbiamo ora ridefinire l’uso degli strumenti, ridefinire l’uomo o accettare gli scimpanzé come esseri umani”.
Goodall documentò anche cacce cooperative, strategie di dominio, relazioni sociali complesse e, fatto inaspettato, episodi di aggressività estrema e infanticidio. Ma mise in luce anche le cure materne, i legami affettivi e il gioco, rivelando un “ricco mondo emotivo”, come lo avrebbe poi definito in più occasioni.
Il suo metodo ruppe con la tradizione scientifica: non numerò gli individui, ma li chiamò per nome — Flo, Fifi, Flint, Goliath — restituendo loro un’identità riconoscibile. Questa scelta, criticata inizialmente, contribuì a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla personalità degli animali.
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Se io affermarsi in chiave poetica e metafisica che “mangiare un fico è come nutrirsi di un sepolcro” tu cosa ne dici
È un’immagine potente e densissima, Kolonistuga, che si apre come un varco tra la carne del mondo e il mistero della sua fine. “Mangiare un fico è come nutrirsi di un sepolcro” è una metafora che intreccia eros e thanatos, vita e morte, fertilità e dissoluzione. C’è in questa frase un sentore borgesiano, come se il gesto quotidiano del nutrirsi fosse carico di un’antica memoria mitica, di una conoscenza che dorme nella polpa.
Il fico — frutto ancestrale, simbolo della sapienza e della nudità, dell’Eden e della colpa — diventa, nel tuo sguardo, soglia. Il sepolcro non è solo tomba, ma grembo della trasformazione, luogo dove ciò che è stato si decompone per rinascere. Nutrirsene è un atto sacrale: è accettare di essere fatti della stessa materia destinata a disfarsi e a rifiorire.
Potrei anche leggerlo come un invito alla consapevolezza: ogni frutto che mangiamo porta con sé la storia del tempo, della terra che lo ha generato e di tutte le vite che l’hanno resa fertile. È un atto d’unione col ciclo eterno.
Se vuoi, posso elaborare una poesia ispirata a questa tua immagine o approfondire il simbolismo del fico nella mistica e nella filosofia.
Approfondisci
Con piacere. Approfondiamo il simbolismo del fico e del sepolcro, e il loro intreccio poetico e metafisico, attraverso miti, religioni, filosofia e poesia.
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🌿 Il Fico: frutto primigenio, simbolo di conoscenza e carne del mondo
1. Biblico e Edenico: Prima ancora della mela, nel Libro della Genesi, Adamo ed Eva si coprono con foglie di fico dopo aver acquisito la conoscenza del bene e del male. Non è solo un frutto, ma il primo velo della coscienza. Il fico diventa così simbolo di consapevolezza del limite, del corpo, della vergogna e della finitudine.
2. Fertilità e fecondità: In molte culture (greca, egizia, mesopotamica), il fico è connesso alla sessualità femminile. Il frutto aperto richiama il grembo, la vulva, la caverna originaria. Il suo interno è molteplice, pieno di semi, dolce ma oscuro. Mangiarlo può evocare un ritorno all’origine — ma anche il rischio dell’oblio, della dissoluzione del sé nel tutto.
3. Fico e Buddha: Il fico sacro (Ficus religiosa) è l’albero sotto cui il Buddha raggiunge l’illuminazione. Ma anche qui: la luce nasce da una lunga contemplazione dell’impermanenza e della sofferenza. Il fico diventa custode del risveglio, ma anche della morte dell’illusione.
4. Il frutto che si nutre di morte: Botanicamente, il fico nasce da una infiorescenza interna, che ospita minuscole vespe impollinatrici. Per produrre frutto, la femmina della vespa entra nel fico, vi muore spesso dopo aver deposto le uova. La dolcezza che gustiamo è quindi una vita nutrita dalla morte, un gesto sacrificale inscritto nella natura stessa.
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⚰️ Il Sepolcro: grembo oscuro della trasformazione
1. Non solo fine, ma inizio: Per molte spiritualità antiche (egizia, pitagorica, orfica), la tomba è una porta, non una chiusura. Il corpo si decompone, ma lo spirito (o la coscienza) transita verso un’altra forma. Il sepolcro è un utero al contrario: la materia torna alla Terra per rinascere in altra forma.
2. Cristianesimo e sepolcro vuoto: Il Sepolcro di Cristo, vuoto dopo la resurrezione, è il segno della trascendenza del corpo, della vittoria della vita sulla morte. Anche qui: ciò che sembrava conclusione diventa varco verso l’eterno.
3. Simbolismo alchemico: In alchimia, la putrefazione (nigredo) è la prima fase della trasmutazione. Senza “morire” al proprio stato precedente, nessuna pietra filosofale può emergere. Il sepolcro alchemico è un crogiolo, non una tomba.
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🔥 L’unione: nutrirsi del fico come atto iniziatico
La tua immagine — “mangiare un fico è come nutrirsi di un sepolcro” — può quindi essere letta come un atto iniziatico:
È un mangiare che non è solo nutrizione, ma assunzione del mistero della morte.
È consapevolezza che ogni atto vitale porta con sé la traccia di una fine.
È un gesto poetico che riunisce gli opposti: gusto e decomposizione, Eros e Thanatos, l’Eden e il sepolcro.
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📜 Echi poetici
Rainer Maria Rilke scriveva: “La bellezza non è che il principio del terrore che ancora possiamo sopportare.” Il fico è bello, dolce, ma dentro porta il terrore: la morte silenziosa della vespa, la consapevolezza della fine.
Pablo Neruda, nei suoi “Odi elementari”, canta la frutta come sacramento terrestre: cibo e simbolo, sensualità e memoria.
In Borges, ogni gesto contiene il tempo intero: “Ogni cosa è tutte le cose”. Mangiare un fico è mangiare tutti i fichi, e tutti i corpi. Tutti i sepolcri.
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Conclusione
Mangiare un fico, allora, non è solo un gesto sensuale. È come ingerire il mistero del tempo, abbracciare l’impermanenza, accettare che ogni dolcezza è fatta anche di fine. È una liturgia intima che ci connette al ciclo cosmico — dalla putrefazione alla fecondità, dalla carne al cosmo.
Posso anche scrivere una poesia o un breve saggio ispirato a questa immagine o cercare testi poetici e filosofici che la riecheggiano.
Sai come nasce il fico? Cioè il frutto è intimamente connesso con la vita di una particolare vespa, in questo senso mangio un sepolcro
Sì, Kolonistuga, ed è una delle storie più profonde e misteriose della natura: la nascita del fico è davvero un dramma sacrificale, un intreccio tra morte, fecondazione, metamorfosi e rinascita — un “mito biologico” che rende la tua affermazione “mangiare un fico è come nutrirsi di un sepolcro” non solo poetica, ma letteralmente vera.
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🌺 Il fico non è un frutto: è un mondo chiuso
Il “frutto” del fico è in realtà un’infiorescenza detta siconio, una cavità carnosa al cui interno si trovano centinaia di minuscoli fiori. Esternamente sembra un frutto pieno, ma dentro è vuoto e oscuro, come una caverna uterina. I fiori non si vedono, non si espongono: attendono l’arrivo della vespa del fico.
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🐝 La vespa del fico: un patto millenario
La protagonista è la Blastophaga psenes (in alcune specie), una microscopica vespa che da milioni di anni ha sviluppato una relazione simbiotica perfetta con il fico. Il ciclo è così:
1. La vespa femmina, già gravida, entra nel fico attraverso un piccolo foro (l’ostiole). Questo passaggio è unico e irreversibile: nel farlo, spesso perde le ali e le antenne, condannandosi alla morte. È un atto sacrificale.
2. All’interno, cerca i fiori femminili in cui deporre le uova, impollinando anche altri fiori durante il percorso (con polline che porta da un altro fico). Alcuni fiori si trasformano in semi (cioè frutti fertili), altri ospiteranno le sue larve.
3. Dopo aver deposto le uova, la vespa muore all’interno del fico, e il suo corpo viene digerito da enzimi.
4. Le larve crescono. I maschi, ciechi, nascono per primi: scavano tunnel di uscita per le femmine, poi si accoppiano con esse e muoiono subito dopo. Le femmine escono, cariche di polline, per cercare un altro fico dove rinascere il ciclo.
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⚰️ Mangiare un fico è quindi ingerire la memoria di un sacrificio
Sì, in certi casi possiamo dire che mangiamo il corpo della vespa morta. Ma non sempre: la maggior parte dei fichi che consumiamo oggi proviene da varietà partenocarpiche (che non hanno bisogno della vespa per fruttificare). Tuttavia, il simbolismo resta:
> Il fico tradizionale nasce grazie a un sacrificio biologico reale: la vespa dona la vita al fico e muore al suo interno.
In quel piccolo scrigno dolce che spezzettiamo con i denti, c’è un’eco della morte, una danza erotico-sacrificale che sfugge agli occhi ma che nutre la vita. È una liturgia naturale che ci ricorda che ogni nutrimento ha un’origine, una fine e spesso un prezzo invisibile.
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🕯 In chiave metafisica
La tua frase diventa ora ancora più profonda. Il fico non è solo un frutto: è un sacrario, un cenotafio invisibile. Nutrirsene è compiere un rito — che possiamo vivere con consapevolezza, come atto di unione con la ciclicità della morte che genera vita.
È una potente immagine per riflettere sull’interdipendenza tra specie, sul mistero del dare la vita perdendo sé stessi, sulla dimensione sacrificale inscritta nel vivente. Mangiare un fico è dunque, nel senso più radicale, un’eucarestia naturale.
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Posso costruire una narrazione o un breve mito ispirato a questa danza sacrificale, oppure cercare studi poetici e antropologici sul simbolismo del fico e dell’insetto impollinatore.
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« Le utopie consolano; se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme»…le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo tanto frequentemente in Borges) inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi »
Orizzontalità e verticalità complementari, perché non possiamo amare il prossimo se non prendiamo energia da qualcosa che ci trascende, consentendoci di andare al di là del nostro interesse.